« Il saggio non accumula nulla. Più usa ciò che ha per gli altri, più ha. Più dà ciò che ha agli altri, più è ricco »
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Se il chicco di grano caduto in terra non muore rimane solo: se invece muore, produce molto frutto.


E’ il senso di questa delicata leggenda cinese.

C’era una volta un bellissimo e meraviglioso giardino. Era situato ad ovest del paese, in mezzo al grande regno. Il Signore di questo giardino aveva l’abitudine di farvi una passeggiata ogni giorno, quando il caldo della giornata era più forte.

C’era in questo giardino un bambù di aspetto nobile. Era il più bello di tutti gli alberi del giardino e il Signore amava questo bambù più di tutte le altre piante.

Anno dopo anno, questo bambù cresceva e diventava sempre più bello e grazioso. Il bambù sapeva bene che il Signore lo amava e ne godeva.

Un bel giorno il Signore, molto in pensiero, si avvicinò al suo albero amato e l’albero, in grande venerazione, chinò la testa. Il Signore gli disse: “Caro bambù, ho bisogno di te”. Sembrò al bambù che fosse venuto il giorno di tutti i giorni, il giorno per cui era nato.

Con grande gioia, ma a bassa voce, il bambù rispose: “O Signore, sono pronto. Fa di me l’uso che vuoi”.

“Bambù”, la voce del Signore era seria, “per usarti devo abbatterti”. Il bambù fu spaventato, molto spaventato: “Abbattermi, Signore, me che hai fatto diventare il più bell’albero del tuo giardino? No, per favore, no! Fai uso di me per la tua gioia, Signore, ma per favore non abbattermi”

“Mio caro bambù” disse il Signore, e la sua voce era più seria, “se non posso abbatterti, non posso usarti”. Nel giardino ci fu allora un grande silenzio. Il vento non tirava più, gli uccelli non cantavano più.

Lentamente, molto lentamente, il bambù chinò ancora di più la sua testa meravigliosa.

Poi sussurrò: “Signore, se non puoi usarmi senza abbattermi, fai di me quello che vuoi e abbattimi”.

“Mio caro bambù”, disse di nuovo il Signore, “non devo solo abbatterti, ma anche tagliarti le foglie e i rami”.

“O Signore”, disse il bambù, “non farmi questo. Lasciami almeno le foglie e i miei rami”.

“Se non posso tagliarli, non posso usarti”

Allora il sole si nascose e gli uccelli ansiosi volarono via. Il bambù tremò e disse appena udibile: “Signore, tagliali!”

“Mio caro bambù, devo farti ancora di più. Devo spaccarti in due e strapparti il cuore. Se non posso fare questo non posso usarti”.

Il bambù non potè più parlare. Si chinò fino a terra.

Così il Signore del giardino abbattè il bambù, tagliò i rami, levò le foglie, lo spaccò in due e ne estirpò il cuore. Poi portò il bambù alla fonte di acqua fresca vicino ai suoi campi inariditi. Là delicatamente il Signore depose l’amato bambù a terra; un’estremità del tronco la collegò alla fonte; l’altra la diresse verso il suo campo arido. La fonte dava l’acqua, l’acqua si riversava sul campo che aveva tanto aspettato.

Poi fu piantato il riso, i giorni passarono, la semenza crebbe e il tempo della raccolta venne. Così il meraviglioso bambù divenne realmente una grande benedizione in tutta la sua povertà ed umiltà.

Quando era ancora grande e bello e grazioso, viveva e cresceva solo per se stesso e amava la propria bellezza.

Al contrario, nel suo stato povero e distrutto, era diventato un canale, che il Signore usava per rendere fecondo il suo regno.


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Belladonna


Il discepolo disse al maestro: "Ho passato gran parte della giornata pensando cose che non avrei dovuto pensare, desiderando cose che non avrei dovuto desiderare, facendo piani che non avrei dovuto fare."

Il maestro invitò il discepolo a fare una passeggiata nel bosco vicino a casa. Strada facendo, indicò una pianta e domandò al discepolo se sapesse che pianta fosse. "Belladonna," rispose il discepolo. "Può uccidere chi mangia le sue foglie."

"Ma non può uccidere chi semplicemente la contempla. Nello stesso modo, i desideri negativi non possono causare alcun male, se non te ne lasci sedurre."


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Un discepolo chiese ad un Maestro illuminato: "Maestro come mai non sono ancora felice?"


"Perché sei ancora, e perché ancora stai rincorrendo la felicità. La felicità non può essere cercata, non si può andare alla ricerca della felicità. La felicità è un derivato, è una conseguenza naturale. Se ne fai uno scopo, non la troverai mai, ti sfuggirà sempre. Arriva silenziosamente, arriva come un sussurro, arriva come la tua ombra. Quando sei totalmente assorto in qualcosa e non pensi assolutamente alla felicità... eccola! Quando invece ci pensi, non c'è mai: è molto timida. Quando ti guardi attorno scompare; quando cominci a pensare: Sono felice o no? Non lo sei.

Un uomo felice non pensa mai alla felicità: è talmente felice, come potrebbe pensare alla felicità? Solo un uomo infelice pensa alla felicità e, pensandoci, diventa ancora più infelice."

Ti racconto una storia:

Un cane adulto vide un cucciolo che rincorreva la propria coda e gli chiese:



"Perché stai correndo dietro alla tua coda?"


E il cagnolino rispose: "Ho scoperto i segreti della filosofia, ho risolto i problemi dell'universo che nessun cane prima di me aveva affrontato nel modo giusto: ho imparato che la felicità è una cosa importante per un cane e che la felicità si trova nella mia coda. Ecco perché la sto rincorrendo, e quando l'avrò afferrata possiederò la felicità".


Il vecchio cane rispose: "Figliolo, anch'io ho considerato i problemi dell'universo, per quanto potevo, e mi sono fatto delle opinioni. Anch'io ho scoperto che la felicità è una bella cosa per un cane, e che la felicità è nella mia coda, ma ho anche notato che quando mi occupo delle mie cose... mi viene dietro: non ho bisogno di rincorrerla".


Ascolta ciò che dice il vecchio cane.


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UNO


Un giorno il maestro cominciò ad insegnare ai suoi alunni a scrivere i numeri partendo dall’Uno, che è solo una linea dritta verticale. Tutti gli studenti scrissero alcune pagine di Uno nel quaderno per imparare bene la scrittura di questo segno.

Uno dei bambini non solo scrisse molte pagine in classe, ma quando tornò a casa continuò a scrivere fiumi di Uno senza fermarsi e ripeteva: ”Non ho imparato bene, devo ancora apprendere perfettamente questa lezione”. Anche in classe continuava, mentre gli altri bambini andavano avanti e imparavano gli altri numeri.

Continuava a ripetere: “Quando avrò imparato bene allora potrò andare avanti e scrivere gli altri numeri”. Ma il maestro si preoccupò e pensò che il bimbo non era normale. Anche i genitori si preoccuparono, perché non capivano come mai il bimbo s’impegnasse solo a scrivere Uno; e così gli dissero: “Siamo stanchi di te, tutti bimbi stanno già scrivendo tutti i numeri mentre tu sei ancora fermo alla prima lezione!”.

Il bimbo, allora, non sopportando di vederli dispiaciuti si allontanò da casa e andò a vivere di noci nel deserto, per poter continuare i suoi esercizi. Dopo qualche tempo ritornò e andò a visitare la scuola dove incontrò il maestro e gli disse: “Guarda se ho imparato a scrivere bene Uno; posso scrivere qui sul muro?”

E dopo averlo scritto il muro si separò in due parti.


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Le quattro mogli


C’era un ricco commerciante che aveva quattro mogli. La moglie che amava di più era la quarta. La vestiva con vestiti lussuosi e gli concedeva ogni delicatezza. Si occupava di lei con la massima cura e non gli negava le cose migliori.

Amava molto anche la terza moglie. Era molto orgoglioso di lei e cercava sempre di mostrarla ai suoi amici. Eppure il mercante aveva molta paura che potesse fuggire con qualche altro uomo.

Amava molto la sua seconda moglie. Si trattava di una persona molto paziente ed egli la considerava la sua confidente. Ogni qualvolta che si trovava a dover affrontare qualche problema si rivolgeva alla sua seconda moglie ed essa lo aiutava a superare il momento difficile.

La prima moglie infine era una compagna molto fedele e aveva dato un grande contributo alla sua fortuna commerciale e alla cura della famiglia. Tuttavia il commerciante non l’amava e ben difficilmente seguiva il suo consiglio.

Un giorno il commerciante si ammalò e si rese conto che non avrebbe avuto più molto da vivere. Pensando alla sua vita lussuosa diceva a se stesso: “E’ vero che ho quattro mogli, ma quando muoio sarò solo. Ah quanto sarò solo!”

Disse alla quarta moglie: “Ti ho amato più di tutte, ti ho rivestito degli abiti più raffinati e non ho trascurato per te nessuna cura. Ora sto morendo, vuoi seguirmi e continuare a farmi compagnia?”. “Certo che no!” esclamò la quarta moglie e si allontanò senza dire altro. La risposta trafisse il cuore del mercante come un coltello affilato.

Triste, il mercante disse allora alla terza moglie: “Ti ho amato tanto per tutto il corso nella mia vita. Ora sto morendo, vuoi seguirmi e tenermi compagnia?”. “No, rispose la terza moglie, la vita è davvero buona qui, e mi risposerò quando tu morirai!”. Il cuore del mercante divenne freddo come ghiaccio.

Disse allora alla seconda moglie: “Mi sono sempre rivolto a te e tu mi hai sempre aiutato. Adesso ti chiedo di aiutarmi ancora. Sto morendo, vuoi seguirmi e tenermi compagnia?”. “Mi dispiace, questa volta non posso aiutarti, disse la seconda moglie, al massimo posso farti seppellire”. Questa risposta colpì il mercante come un fulmine e ne fu devastato.

Sentì un grido: “Io verrò con te, ti seguirò ovunque tu andrai”. Il mercante guardò su e vide la sua prima moglie. Era così magra da sembrare denutrita. Molto dispiaciuto il mercante disse: “Avrei dovuto occuparmi meglio di te”.

Ebbene ognuno di noi prende quattro mogli nella sua vita. La quarta moglie è il tuo corpo. Non importa lo sforzo con il quale lo curi, dovrai lasciarlo.

La tua terza moglie è ciò che possiedi, la tua condizione, la tua ricchezza. Quando muori tutto va agli altri.

La seconda moglie sono la tua famiglia e i tuoi amici. Per quanto ci stiano vicini nella vita non possono stare con te nella morte..

La prima moglie è invece la tua anima. Tanto trascurata e negletta nella ricerca dei beni materiali e dei piaceri sensuali. E’ davvero l’unica cosa che ti segue ovunque tu vada.

Sarebbe bene occuparsi di essa e coltivarla prima di essere sul letto di morte e disperarsi.


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Il Perdono "Shu"


Un giorno il saggio diede al discepolo un sacco vuoto e un cesto di patate. “Pensa a tutte le persone che hanno fatto o detto qualcosa contro di te recentemente, specialmente quelle che non riesci a perdonare. Per ciascuna, scrivi il nome su una patata e mettila nel sacco”.

Il discepolo pensò ad alcune persone e rapidamente il suo sacco si riempì di patate.“Porta con te il sacco, dovunque vai, per una settimana” disse il saggio. “Poi ne parleremo”.

Inizialmente il discepolo non pensò alla cosa. Portare il sacco non era particolarmente gravoso. Ma dopo un po’, divenne sempre più un gravoso fardello. Sembrava che fosse sempre più faticoso portarlo, anche se il suo peso rimaneva invariato.

Dopo qualche giorno, il sacco cominciò a puzzare. Le patate marce emettevano un odore acre. Non era solo faticoso portarlo, era diventato anche sgradevole.

Finalmente, la settimana terminò. Il saggio domandò al discepolo. “Nessuna riflessione sulla cosa?”

“Sì, maestro” rispose il discepolo. “Quando siamo incapaci di perdonare gli altri, portiamo sempre con noi emozioni negative, proprio come queste patate. Questa negatività diventa un fardello per noi e, dopo un po’, peggiora.”

“Sì, questo è esattamente quello che accade quando si coltiva il rancore. Allora, come possiamo alleviare questo fardello?”

“Dobbiamo sforzarci di perdonare”.

“Perdonare qualcuno equivale a togliere una patata dal sacco. Quante persone per cui provavi rancore sei capace di perdonare?”

“Ci ho pensato molto, Maestro” disse il discepolo. “Mi è costato molta fatica, ma ho deciso di perdonarli tutti”.“Molto bene, possiamo togliere tutte le patate. Ci sono altre persone che ti hanno offeso o irritato nell’ultima settimana?”

Il discepolo rifletté per un momento e ammise che ce n’erano. Improvvisamente rimase sgomento, quando si rese conto che il sacco vuoto si sarebbe riempito di nuovo.“Maestro” chiese, “se continuiamo così, non ci saranno sempre patate nel sacco, settimana dopo settimana?”

“Sì, finché ci saranno persone che diranno o faranno cose contro di te in qualche modo, tu avrai sempre patate”.

“Ma Maestro, noi non potremo mai controllare quello che gli altri fanno. Cosa c’è di buono nel Tao allora?”

“Questo non è ancora il Tao. Quello di cui abbiamo parlato finora è l’approccio convenzionale al perdono. E’ quello che tante filosofie e religioni predicano – dobbiamo costantemente sforzarci di perdonare, perché questa è una virtù importante. Questo non è il Tao, perché non c’è sforzo nel Tao”.

“Allora cosa è il Tao, Maestro?”

“Prova ad immaginarlo. Se le patate sono le emozioni negative, allora cosa è il sacco?”

“Il sacco è… quello che mi permette di trattenere la negatività. E’ qualcosa dentro di noi che ci fa persistere sui sentimenti offesi… Ah, è il mio tronfio senso di auto-stima”.

“E cosa succede se te ne liberi?”

“Allora… le cose che la gente fa o dice contro di me non sembrano più un gran problema”.

“In tal caso, non avrai nessun nome da scrivere sulle patate. Questo significa niente più peso da portare e niente più puzza. Il Tao del perdono è la decisione cosciente non solo di togliere le patate… ma di abbandonare l’intero sacco”.


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Il Coniglio della Luna


C'era una volta, in una foresta, una radura nella quale venivano spesso dei santi uomini a meditare. In essa c’era anche un meraviglioso giardino con frutti e fiori, tenere erbe, e le acque increspate di uno splendente ruscello. In questo piccolo paradiso viveva un coniglio le cui virtù offuscavano quelle di tutti gli altri esseri viventi. Una sera il Buddha, accompagnato da parecchi dei suoi discepoli, venne al giardino. Sedettero ai suoi piedi e ascoltarono la sua recita dei sutra. Così passarono una notte e un giorno fino a che il sole cocente fu alto nel cielo e le cicale si misero a cantare. Era il momento in cui ogni creatura cercava l’ombra e ogni viaggiatore soffriva per il caldo. Buddha assunse l’aspetto di un bramino e gridò con dolore: «Sono solo, i miei amici mi hanno abbandonato e io ho fame e sete. Credenti, venite e aiutatemi!». I piccoli animali della foresta sentirono il suo richiamo e uno dopo l’altro si affrettarono al suo fianco. Essi lo pregarono di rimanere e accettare la loro ospitalità. La lontra portò sette pesci e disse: «Prendi questi e stai con noi.» Lo sciacallo portò parte della sua preda e chiese al Buddha di onorarli con la sua presenza ed essere il loro insegnante. Quindi venne il turno del coniglio. Modestamente fece un passo avanti, le mani vuote. «Maestro! Io sono cresciuto nei boschi. Il mio cibo sono le erbe. Non ho altro da offrirti se non il mio corpo. Dacci la benedizione e riposa qui, e lascia che io ti nutra delle mie carni, poiché non c’è altro che io possa darti.». Proprio in quel momento scorse del carbone magico, carbone che bruciava senza fumo. Quando stava per saltare nelle fiamme, si fermò improvvisamente e tolse i minuscoli insetti dalla pelliccia dicendo: «Posso dare il mio corpo al santo, ma non ho diritto di prendere le vostre vite.» Posando gli insetti delicatamente sul terreno il coniglio si gettò sul fuoco. Buddha riprese la sua forma e lodò il sacrificio: «Colui che dimentica se stesso, anche la più modesta di tutte le creature terrestri, raggiungerà l’Oceano della Pace Eterna! Tutti gli uomini dovrebbero imparare da lui ed essere ugualmente pietosi e servizievoli!» Buddha dette poi istruzione che le sembianze del coniglio adornassero la luna e rimanere così uno splendido esempio per sempre. E grazie al loro santo amico, tutti gli animali nella foresta furono posti nel mondo dei santi.

Il taoismo adottò il Coniglio della Luna insieme a molti altri concetti che si originarono nel Buddhismo. Essi lo chiamarono il Coniglio di Giada e lo dipinsero con le zampe anteriori corte, quelle posteriori lunghe e la coda corta. Si dice che si trovi sotto un albero di cassia magico sulla luna fabbricando pillole dell’immortalità, anche conosciute come l’elisir di giada.


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«Il mio cuore brucia come il fuoco ma i miei occhi sono freddi come ceneri morte»


Soyen Shaku, il primo insegnante di Zen ad andare in America, stabilì le seguenti norme, che mise in pratica ogni giorno della sua vita:

  • La mattina, prima di vestirti, brucia dell'incenso e medita.
  • Coricati sempre alla stessa ora.
  • Nutriti a intervalli regolari.
  • Mangia con moderazione e mai a sazietà̀.
  • Ricevi un ospite con lo stesso atteggiamento che hai quando sei solo.
  • Da solo, conserva lo stesso atteggiamento che hai nel ricevere ospiti.
  • Bada a quello che dici, e qualunque cosa tu dica, mettila in pratica.
  • Quando si presenta un'occasione non lasciartela scappare, ma prima di agire pensaci due volte.
  • Non rimpiangere il passato. Guarda al futuro.
  • Abbi l'atteggiamento intrepido di un eroe e il cuore tenero di un bambino.
  • Non appena vai a letto, dormi come se quello fosse il tuo ultimo sonno.
  • Non appena ti svegli, lascia subito il letto dietro di te come se avessi gettato via un paio di scarpe vecchie.

(da 101 Storie Zen)


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Lo Zen e l’Arte della Sofferenza


Il giovane Kyo, dopo aver a lungo camminato, arrivò al piccolo tempio del Maestro Shen. Lo vide da lontanto, immobile a guardare il piccolo stagno di carpe. Kyo si avvicinò prima lentamente e poi quasi correndo, buttandosi a terra a qualche metro, con la testa china al suolo, iniziò a presentarsi ma col fiatone non riuscì a farsi capire dal vecchio Shen. Il Maestro senza girarsi disse: “Vieni qui accanto a guardare le carpe”. Kyo si alzò, ricomponendosi velocemente, e insieme guardarono lo stagno in silenzio.

Il Maestro disse: “Cosa sei venuto a cercare quassù?”. Kyo rispose: “Ho una sofferenza che mi lacera il cuore, non riesco più a vivere e non so come potermene liberare”. Shen scosse la testa molto lentamente dicendo: “Sei quindi salito fino a qui per poterla buttare giù a valle?”. Kyo rispose: “Non si prenda gioco di me Maestro, sono venuto qui perchè vorrei imparare da lei come potermi liberare dal mio tormento”.

Shen disse: “Per quale motivo vuoi soffrire?”. Kyo rispose: “Ma io non voglio soffrire, sono venuto qui perchè non voglio più soffrire! La mia amata JinMei mi ha abbandonato un anno fa, dicendomi che anche se lei mi amava i suoi genitori non avrebbero acconsentito mai al nostro matrimonio, ma io so che non era vero, e questo mi distrugge”.

Il Maestro distolse lo sguardo dallo stagno, fissando il giovane negli occhi disse: “Kyo io ti amo però i miei genitori non acconsentirebbero mai al nostro matrimonio, dobbiamo quindi lasciarci”. Il giovane restò immobile a guardare i suoi piccoli occhi, senza dire una parola, mentre il vecchio Shen rimaneva serio, anche se qualcosa nei suoi occhi sembrava ridere rumorosamente.

Kyo disse quindi: “Maestro… non è la stessa cosa!”. Shen rispose: “Ti assicuro che anche io stavo mentendo”. E mentre lo diceva si alzò lentamente in piedi, dirigendosi verso casa. Kyo restò incantato a fissare le carpe, sapendo che qualche particolare gli era sfuggito, dopo poco si affrettò a raggiungere il Maestro. Shen entrò nel piccolo portico della sua modesta abitazione, tolse i sandali e iniziò a cercare qualcosa in una cesta, ne tirò fuori una piccola biglia di vetro, al cui interno si poteva notare un piccolo puntino nero. Il giovane attendeva sul portico, senza osare chiedere di entrare.

Shen tornò sul portico, consegnando la biglia al ragazzo. E disse: “La sofferenza è un semplice mistero, una parte la puoi vedere ma non la vuoi capire, una parte la vuoi capire ma non la puoi vedere” - e aggiunse - “Immagina che la tua sofferenza sia come questa biglia, anche se ora la guardi non riesci a vedere che il suo esterno, ma quel puntino nero che c’è al centro è troppo piccolo perchè possa essere compreso, eppure quel puntino è un ideogramma e ha un significato”.

Kyo fissava la biglia al sole, cercando di leggere l’ideogramma, e poi chiese: “Come potrà questa biglia aiutarmi?”. Il Maestro prese una palla di impasto che aveva a portata di mano, prese la biglia dalle mani di Kyo e la inserì al centro di questa palla di impasto. La diede nuovamente a Kyo e disse: “Vai alla fontana, prendi un sorso d’acqua e ingoiala, ti aiuterà a comprendere”. Kyo cercò di capire se il vecchio lo stesse nuovamente prendendo in giro, esitò qualche istante poi si diresse alla fontana per inghiottire la palla contenente la biglia.

Shen intanto si era rimesso i sandali, al ritorno di Kyo disse: “Quel medaglione che hai al collo ha delle iscrizioni adeguate a una donna”. Kyo subito rispose: “Questo medaglione non è mio è di JinMei, è l’unico ricordo che ho del nostro amore”. Shen sorrise, in modo molto lento, quasi stanco: “Andiamo al lago, portiamo il tuo amore a fare una passeggiata”. E si incamminarono per i sentieri che conducevano a un lago non lontano.

Arrivati sul posto il Maestro prese una piccola barca, traghettò quindi Kyo al centro del lago e disse: “Secondo te questo è il centro del lago?”. E il giovane: “Sicuramente si”. Aggiunse il maestro: “Da cosa lo noti?”. Il giovane guardandosi intorno disse: “La distanza da quegli alberi su quella riva e da quei massi mi sembra proprio la stessa, è sicuramente il centro del lago”. Shen lentamente prese il medaglione dal collo di Kyo e lo gettò in acqua, mentre Kyo rimaneva immobile e sconcertato.

“Maestro ma cosa avete fatto! Avete gettato via il mio medaglione!”, disse il giovane. Shen ridendo disse: “Non era certo il tuo medaglione, come non era il mio medaglione, potrebbe lamentarsi JinMei semmai”. Kyo intanto cercava di guardare nell’acqua per vedere il medaglione, mentre Shen aggiunse: “Se ci tieni tanto puoi sempre tuffarti e riprenderlo”. Kyo non se lo fece dire due volte, si tolse i vestiti e si gettò in acqua.

Shen ammirava le cime in lontananza e la distesa di alberi e rami in ogni direzione, mentre la testa di Kyo sbucava ogni tanto dall’acqua per riprendere fiato e tornare a immergersi, e continuò per ore, fino a che il giovane stremato non tornò sulla barca. Tremante di freddo ed esausto disse: “Non ce la posso fare, è troppo profondo”. Shen disse: “E' al centro del lago, da lì non si sposta, domani potrai riprovare”. Tornarono al tempio in silenzio, e davanti al fuoco consumarono una cena leggera. Il giovane si addormentò senza nemmeno rendersene conto.

La mattina seguente Kyo si svegliò e del Maestro non c’era traccia, si preparò del tè caldo e subito dopo si diresse nei boschi, per sbrigare le faccende che il corpo comanda. Ritrovò la biglia e, imbarazzato, la prese con alcune foglie, correndo alla fontana per ripulirla. Si diresse quindi nuovamente al tempio e vide che il Maestro era ancora seduto a contemplare lo stagno di carpe.

Kyo imbarazzato si sedette di fianco e disse: “Ho trovato nuovamente la biglia, Maestro, non sapevo se potesse servirvi”. Shen disse: “L’hai guardata?”. Kyo disse: “Si”. Shen disse: “Ti è sembrata diversa?”. “No, era identica a prima, ma volevo sapere cosa farne” disse Kyo. 

Il maestro scosse la testa: “A me di certo non serve, se non serve nemmeno a te gettala pure via”. Kyo guardò la biglia per qualche altro istante e disse: “Ma perchè me l’avete fatta mangiare se non mi serve?”. Shen rispose: “Sei tu che dici che non ti serve, e sei tu che l’hai mangiata, io di certo non ti ho costretto”. Kyo, iniziando ad alterarsi disse: “Ma io l’ho mangiata perchè pensavo servisse a qualcosa, non l’avrei certo inghiottita di mia iniziativa”. 

Shen sospirò: “Forse il soffrire per quella ragazza ti è stato imposto? Dici di volerti liberare di quel dolore ma sei tu stesso che hai deciso di mettere la sofferenza dentro di te, se vuoi buttarlo via non devi fare altro che permettere a quel dolore di abbandonare il tuo corpo, lo vedrai come quella biglia, identico a prima, ma non più dentro il tuo corpo ma fuori di esso”. 

Kyo disse: “Io non so come fare”. Il Maestro Shen disse: “Resterai qui con me, come mio allievo, ogni giorno se soffrirai ancora andrai al lago a recuperare il medaglione". Kyo annuì, confuso ma sollevato. Passarono i mesi, ogni giorno il giovane si alzava e andava al lago, i primi tempi tornava al tempio esausto dopo qualche ora, con il passare dei giorni faceva ritorno sempre più tardi, sempre più esausto. Una sera torno al tempio che era già notte, e il Maestro disse: “Oggi hai recuperato il medaglione?”. 

Kyo, sconvolto dalla stanchezza, si mise seduto accanto al fuoco e disse: “No, maestro, ho tentato tutto il giorno, dall’alba fino alle ultime luci del tramonto, ma non sono riuscito a raggiungere il fondo”. Il Maestro disse: “Potevi iniziare prima o finire dopo?”. “No, non potevo”, disse Kyo. 

Il Maestro accese una piccola pipa di bambù e disse: “Si soffre fino a che non si è abbastanza stanchi di soffrire, per questo bisogna soffrire a fondo, completamente, in modo da esaurire la sofferenza e poterla buttare via.” Aspirò lentamente dalla pipa e aggiunse: “Una parte di sofferenza la puoi smaltire, la puoi assorbire, ma c’è una parte che resterà sempre dentro di te, a meno che tu non ti sia stancato di soffrire, è come quella palla di impasto con la biglia al centro, tu puoi digerire quello che il tuo organismo conosce e può assimilare, il resto se non lo butti fuori resterà a pesare dentro di te, senza poter mai fare parte del tuo organismo. Non sei stanco di rincorrere quel fondo del lago che nemmeno vedi per riprendere qualcosa che non è nemmeno tuo?”. 

Kyo stava per rispondere, rimase con la bocca aperta, senza che le parole uscissero dalle sue labbra, e poi disse: “Si Maestro, sono stanco”. Shen annuì e disse: “Hai sofferto come dovevi, soffrendo hai imparato a soffrire sempre di più, ora che sai soffrire completamente, puoi essere davvero stanco”.

Kyo disse: “Sono però sicuro che mi mancherà JinMei”. Shen disse: “Ti mancherà il miele che prendevi da quella mensola in alto, aiutato da lei che ti sollevava quel tanto da permetterti di raggiungerlo, con il tempo prenderai da solo quel miele e ne cercherai uno ancora più in alto”. Kyo disse: “Nel senso che mi manca quello che io ero quando ero con lei?”. Shen sorrise, e aggiunse: “Domani mattina faremo colazione insieme, poi partirai per la città, i nodi che hai portato quassù sono sciolti e quelle corde in questo luogo non hanno la loro migliore applicazione”. 

Kyo inchinò il capo, e iniziarono a cenare in silenzio. Alla fine della cena Kyo chiese: “Maestro, cosa c’era scritto dentro alla biglia di vetro?”. Il Maestro rispose: “C’era scritto ‘forse’”. Kyo disse: “Ho capito, significa che sono i dubbi, le domande e le ipotesi che ci facciamo a rallentare l’abbandono del dolore?”. Shen sorrise, e disse: “Forse”. Sorrisero e si misero a dormire.

La mattina successiva, pronto per la partenza Kyo esitò un istante e poi si rivolse al vecchio Shen dicendo: “Non so come ringraziarla, vorrei poter restare qui ancora per aiutarla nelle molte faccende che deve sbrigare ogni giorno”. Shen sorrise e disse: “Come ti ho detto i miei genitori non permetterebbero mai questa unione, dobbiamo quindi lasciarci”. Kyo sorrise e fece un inchino, si voltò e ritornò a vivere.



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* SE MI AMI, AMA APERTAMENTE *


Venti monaci e una monaca, che si chiamava Eshun, facevano esercizio di meditazione con un certo maestro Zen. Nonostante la sua testa rapata e il suo abito dimesso, Eshun era molto carina. Diversi monaci si innamorarono segretamente di lei. Uno di questi le scrisse una lettera d'amore, insistendo per vederla da sola. Eshun non rispose. Il giorno dopo il maestro fece lezione ai suoi discepoli, e alla fine della conferenza Eshun si alzò. Rivolgendosi a quello che le aveva scritto, disse: "Se veramente mi ami tanto, vieni qui e prendimi subito tra le tue braccia". 

da "101 Storie Zen"


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L'arciere


Un arciere stava camminando nella foresta vicino un monastero Indù conosciuto per la severità dei suoi insegnamenti, quando vide i monaci nel giardino, che stavano bevendo e divertendosi. 

“Come sono cinici quelli alla ricerca del loro cammino ,” disse l’arciere ad alta voce. “Dicono che la disciplina è importante, ma lì si stanno ubriacando !” 

“Se tu scoccassi cento frecce di seguito, cosa accadrebbe al tuo arco?” chiese il più anziano dei monaci. 

“Il mio arco si romperebbe,” rispose l’arciere. “Se si eccedono i propri limiti, le proprie volontà si indeboliscono. Chi non è in grado di bilanciare il lavoro con il riposo perde entusiasmo, e non può andare lontano.”



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Immaginare la primavera


Un anziano saggio cinese stava camminando per i campi innevati, quando incontrò una donna che piangeva. 

“Perché stai piangendo?” 

“Perché sto pensando alla mia vita, la mia giovinezza, la bellezza che vedevo nello specchio e l’uomo che amavo. Dio è crudele per aver dato la capacità di ricordare. Egli sapeva che un giorno avrei ricordato la primavera della mia vita, e avrei pianto.” 

Il saggio rimase in piedi lì nella neve, guardando un punto fisso e contemplando. Ad un certo punto, la donna smise di piangere: 

“Cosa vedi laggiù?” ella chiese. 

“Un campo di rose,” rispose il saggio. “Dio è stato generoso con me perché mi ha dato la possibilità di ricordare. Egli sapeva che d’inverno, avrei potuto sempre immaginare la primavera.” E sorrise.


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Chi è il migliore?


Un maestro buddhista stava viaggiando con i suoi discepoli, quando notò che stavano discutendo tra loro su chi fosse il migliore. “Ho praticato la meditazione per quindici anni,” disse uno. “Sono stato caritatevole fin da quando ho lasciato la casa dei miei genitori,” disse un altro. A mezzogiorno, si fermarono sotto un melo per riposarsi. I rami dell’albero raggiungevano il terreno. “Quando un albero è carico di frutti, i suoi rami si piegano fino a toccare il terreno. Il vero saggio è colui che è umile. Gli stupidi credono sempre di essere migliori degli altri.”


tratto da Maktub di Paulo Coelho





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Esiste Dio?


Una mattina Buddha era seduto tra i suoi discepoli quando un uomo si avvicinò al banchetto. “Esiste Dio?” chiese. “Sì, Dio esiste,” rispose Buddha. Dopo pranzo, arrivò un altro uomo. “Esiste Dio?” chiese. “No, Dio non esiste,” rispose Buddha. Verso sera, un terzo uomo chiese a Buddha la stessa domanda, e la sua risposta fu: “Devi decidere da solo.” “Maestro, questo è assurdo,” disse uno dei discepoli. “Come puoi dare tre differenti risposte alla stessa domanda?” “Perché erano tre differenti persone,” rispose l’Illuminato. “Ed ogni persona si avvicina a Dio a proprio modo: alcune con certezza, altre con negazione e altre con dubbi.”


tratto da Maktub di Paulo Coelho


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La leggenda di Yin e Yang


Chang E e suo marito Hou Yi, il prodigioso arciere, vivevano durante il regno del leggendario imperatore Yao (2000 a.C. circa). Hou Yi era un valente membro della Guardia Imperiale che maneggiava un arco magico e scoccava frecce magiche. Un giorno nel cielo apparvero dieci soli. La gente sulla terra non riusciva più sopportare il caldo e la siccità che ormai continuavano da diversi anni. L’imperatore decise allora di chiamare Hou Yi ordinandogli di tirare ai soli in soprannumero per eliminarli dal cielo e soccorrere così la popolazione. Facendo uso della sua abilità, Hou Yi ne abbattè nove lasciandone solo uno. La sua fama si diffuse, allora, fino giungere alla Regina Madre d’Occidente (Xi Wang Mu) nei lontani Monti Kunlun. Essa lo convocò al suo palazzo per ricompensarlo con la pillola dell’immortalità, ma avvertendolo così: "Non devi mangiare la pillola immediatamente. Prima devi prepararti per 12 mesi con la preghiera e il digiuno". Essendo un uomo diligente, egli prese a cuore il consiglio e iniziò i preparativi nascondendo, prima di tutto, a casa sua la pillola. Sfortunatamente fu chiamato d’improvviso per una missione urgente. In sua assenza, la moglie Chang E notò una luce fioca e un dolce odore emanare da un angolo della stanza. Una volta presa la pillola nella mano, non riuscì a trattenersi dall’assaggiarla. Nel momento in cui la ingoiò la legge di gravità perse il suo potere su di lei. Poteva volare! Non molto tempo dopo sentì suo marito ritornare e terrorizzata volò fuori della finestra. Arco e frecce in mano, Hou Yi la inseguì per mezzo cielo, ma un forte vento lo riportò a casa. Chang E volò dritta sulla Luna , ma quando arrivò, ansimava così forte per lo sforzo compiuto, che sputò l’involucro della pillola, la quale si tramutò istantaneamente in un coniglio di giada, mentre Chang E divenne un rospo a tre zampe. Da allora vive sulla luna respingendo le frecce magiche che il marito le tira. Hou Yi si costruì un palazzo sul sole ed essi si vedono il quindicesimo giorno di ogni mese. Chang E e Hou Yi, simboli, rispettivamente della luna e del sole, sono divenuti espressione di yin e yang, negativo e positivo, buio e luce, femminile e maschile, ossia della dualità che governa l’universo.


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